L’ingombrante soldato Švejk

Publié le lunedì  13 febbraio 2012
Mis à jour le lunedì  7 febbraio 2022

Patrik Ourednik / L’ingombrante soldato Švejk

P. Ouředník, “L’encombrant soldat Chveïk”, in Traces de 14–18. Actes du colloque international de Carcassonne, Carcassonne 1998. Traduzione dal francese e dal ceco di M. Tria.

eSamizdat, 2-3, 2005

L’ingombrante soldato Svejk

Simpatico furbacchione per alcuni, individuo assolutamente immorale per altri, il buon soldato Švejk, apparso nella letteratura ceca all’indomani della Grande guerra, sarebbe divenuto a poco a poco il simbolo della “resistenza passiva”, che individua nel cinismo civico l’unica risorsa degli “oppressi”. In sostanza sono due i romanzi ai quali quasi esclusivamente attinge l’immaginario collettivo ceco: il Processo di Franz Kafka e il Buon soldato Švejk di Jaroslav Hašek. Ed è facile immaginare, come ha fatto una volta Angelo Maria Ripellino, sviluppando un’immagine del filosofo ceco Karel Kosík, un incontro fortuito tra Josef K., il piccolo funzionario, e Josef Švejk, il ladro di cani. I due personaggi sono nati nello stesso tempo, e dividono, oltre al luogo di nascita, la specifica assurdità che ha caratterizzato l’inizio del ventesimo secolo in un impero in declino. Ripellino li fa incontrare sul Ponte Carlo, l’uno accompagnato da due sagome agghindate in redingote e cilindro, l’altro da due sentinelle claudicanti, baionetta in canna: i due si vedono, si osservano, ma non si parlano [1]. Questo incontro silenzioso fornisce immediatamente al lettore il doppio emblema della visione nazionale della “cechità”: l’espiazione e lo scherno. I cechi amano osservarsi come vittime della Storia; essi amano ugualmente prendersi gioco di essa.

Un secondo punto in comune collega i due racconti: il loro aspetto sconcertante, sconvolgente, imbarazzante, la moltitudine di interpretazioni che l’uno e l’altro hanno potuto provocare.

La storia, perfettamente lineare, del Buon soldato Švejk è costituita, seguendo in questo i precetti del feuilleton popolare, da avventure e aneddoti, ripetitivi e più o meno prevedibili, del soldato Josef Švejk che, benché all’inizio riformato per “idiozia congenita”, si vede di nuovo richiamato alle armi, all’inizio della Grande guerra, sotto le bandiere dell’armata imperiale austro-ungarica. Il primo capitolo dà il tono a tutta l’opera: vi si vede Švejk recarsi, su una sedia a rotelle, sofferente di sciatica, e nondimeno urlante il suo zelo ed il suo bellicismo, alla caserma per dichiararsi volontario: ma questa astuzia – se di astuzia si tratta – non gli evita di venire arruolato. Il meccanismo della narrazione si mette allora in mostra, limpido e disperatamente efficace: nel prendere metodicamente alla lettera gli ordini dai suoi superiori e nell’eseguirli con una premura sconcertante, nel manifestare sistematicamente il suo assenso alle peggiori stupidaggini dell’apparato burocratico, Švejk giunge a neutralizzare ogni potere alienante servendosi contro di esso delle sue proprie armi. La sua sottomissione e la sua docilità a ogni prova gli permettono di invalidare il suo destino. Fin qui, tutti concordano.

Quello che, in compenso, elontano dal mettere d’accordo lettori e critici, è il “carattere” dell’eroe, nel senso morale del termine, e, pertanto, la morale che si potrebbe trarre dall’opera. Si tratta di un cretino, di un semplice scaltro, di un volpone, di un pagliaccio, di un saggio? L’autore stesso non ha fornito nessuna chiave di lettura, e tutto porta a credere che egli fosse lontano dall’immaginare quale posto il suo personaggio avrebbe ben presto occupato nell’immaginario collettivo. Il che potrebbe, a conti fatti, fornirci una specie di chiave di lettura, ambigua come il personaggio stesso. Tuttavia Josef Švejk non è nato con la Grande guerra: la sua prima apparizione è datata 1911, e il suo ruolo si limita in quel caso a quello dell’“idiota del battaglione” che serve l’armata austro-ungarica con zelo e lealtà. Ma è solo dopo l’esperienza della guerra che Hašek, riprendendo il suo personaggio, ne farà il simbolo, per gli uni, del buon senso plebeo di fronte al mostro militare, mentre per gli altri resterà solo una personificazione della furbizia e del cinismo. Vi sono in effetti due modi apparentemente contraddittori per interpretare il {Buon soldato Švejk}: un modo “nobile” che vede in questo anti-eroe un ibrido tra Till Eulenspiegel e Sancho Panza, che, grazie a un’arma decisamente moderna e davvero terribile – vale a dire l’assurdità – giunge a sfuggire al dominio che ogni potere tenta di esercitare sull’individuo. Vi è poi un’altra ottica, che presenta Švejk come l’incarnazione di un innato nichilismo, di un cinismo assoluto. Questa seconda ottica offre peraltro materiale per speculazioni supplementari: è questo l’atteggiamento innocente di un perfetto cretino, di una sorta di creatura vegetale priva di una reale consistenza umana (la qual cosa sottintenderebbe che l’autore ha qui ritratto una satira feroce del comportamento dei cechi di fronte all’impero austro-ungarico e, indirettamente, del loro “carattere nazionale”, un quadro corrosivo dell’{homo bohemicus}, della sua apatia sorniona, del suo pragmatismo popolaresco), o si tratta proprio di una sorta di abile furbizia (la qual cosa ci porterebbe a considerare Švejk come l’emissario di quell’ironia atavica preservata lungo i tanti secoli di assoggettamento e, dunque, come un personaggio tutto sommato positivo, con l’idea che di fronte al potere tutto è permesso, che il fine giustifica i mezzi)? Perché, giustamente, Švejk non lesina sui mezzi per assicurarsi il suo benessere, e approfitta della minima occasione per procurarsi il massimo di comfort – e cioè tranquillità, sonno e nutrimento – anche se deve ottenerlo a spese dei suoi compagni di sventura. Certo, a guisa di un re Ubu, Švejk non manca mai di lucidità quando si tratta di condannare la stupidità degli altri. Ma, sempre in questa ottica ubuesca, è allo stesso tempo, in forma meno grandiosa, un personaggio di una bassezza straordinaria. La differenza tra i due personaggi è che il secondo ama, apparentemente, ricevere gli ordini, anche se solo per prendersene gioco. Un punto in comune lo si potrebbe trovare nella frase di Jarry in cui afferma che – la citazione è approssimativa – {“Ubu non fa affatto dello spirito, ma afferma le sue idiozie con tutta l’autorità di un idiota”}. Un ulteriore punto in comune potrebbe essere l’apparenza decisamente poco umana dei due eroi; donde, salto facile a farsi, la tentazione di considerare Švejk come un oggetto, un semplice catalizzatore che non fa che rivelare l’assurdità del mondo [[Ottica proposta da Petr Král nel suo {Švejk, l’ange de l’absurde}, Critique, 1988, 483–484. La filologa Daniela Hodrová, autore di numerosi studi filologici e letterari, parla successivamente di {Švejk l’ingenuo}” (1982), {Švejk, l’uomo-macchina} (1988) e {Švejk, il mostro} (1994).]]. Ma Švejk è troppo impelagato, per i suoi riferimenti, nel suo contesto storico e sociale, troppo ansioso di fare le sue denuncie, troppo vivo per non essere vero[[All’opposto di queste interpretazioni, il filosofo Karel Kosík parla, al contrario, di una delle ultime incarnazioni dell’umano in un mondo disumanizzato, dove la provocazione e l’humour nero impediscono la reificazione dell’uomo.]]. Ciononostante, l’antinomia tra l’interpretazione “nobile” e l’interpretazione “nichilista” rimane in vigore settant’anni più tardi, e si riflette perfino nei dizionari francesi: se l’{Histoire de la littérature européenne} della casa editrice Hachette presenta il personaggio di Švejk come un discendente della stirpe degli eroi picareschi, dei quali {“Švejk possiede un’innocenza da cui non si separerà mai”} [[{Lettres européennes. Histoire de la littérature européenne}, Paris 1992.]], il Grand Larousse universel parla di un {“buffone cinico e sempre soddisfatto”} [[Si veda l’edizione {Grand Larousse universel}, Paris 1994.]]. Non è cosa priva d’interesse constatare che questo dibattito sulla “vera personalità” di Švejk è stato per lungo tempo appannaggio dei soli cechi e che esso sia stato importato in occidente solo molto tardi. Prima della seconda guerra mondiale nessuno, tranne i cechi stessi, pareva vedere il {Buon soldato Švejk} se non come una magistrale denuncia dell’assurdità della guerra. I partigiani cechi dell’interpretazione “nobile” d’altronde hanno attinto in parte materiale per i loro argomenti nell’accoglienza di cui il libro aveva beneficiato all’estero e principalmente – date le relazioni culturali particolarmente forti all’epoca tra Praga e Parigi – in Francia. Così, nel 1935, tre anni dopo la prima traduzione francese, Hanuš Jelínek, autore di una {Storia della letteratura ceca} redatta in francese, scriveva, in uno slancio patriottico rivelatore dell’epoca: {In effetti, la notorietà acquisita da Švejk, [rischia] di falsare l’opinione del lettore straniero sul carattere stesso del ceco, di cui egli potrebbe sembrare l’espressione veritiera. [...] Fortunatamente, non lo si è considerato dovunque allo stesso modo. In Francia, ad esempio, la traduzione di questo romanzo [...]  è stata compresa non come un’opera di carattere nazionale, ma come la manifestazione di un pacifismo convinto. Ed è tanto meglio così...} [[H. Jelínek, {Histoire de la litt´erature tchèque de 1890 à nos jours}, Paris 1935.]] Vi è senza dubbio una doppia ragione per cui il lettore francese ha visto, e continua a vedere, nel {Buon soldato Švejk} prima di tutto un’opera antimilitarista. In primo luogo, si può indicare la circostanza che le particolarità molto pronunciate del linguaggio del personaggio d’origine [[Vedere a questo proposito l’articolo di J. Jedlička, {De Chvéïk et du chvéïkisme}, Liber [supplemento degli Actes de la Recherche en Sciences sociales, 1995, 108].]] – la lingua popolare perfettamente padroneggiata, aneddoti a ripetizione, ma anche “saggezza popolare” in tutta la sua vacuità, interminabili discorsi da osteria – si attenuano (si sarebbe tentati di dire inevitabilmente) a beneficio del “messaggio”, che a volte esiste probabilmente solo nell’immaginazione del lettore francese, che considera sistematicamente la buffoneria dei discorsi come appartenente alla sfera mitica. In secondo luogo bisogna tener conto anche di un approccio fondamentalmente differente all’opera letteraria a secondo che ci si sostituisca al lettore francese o al lettore ceco. Come nota Martin Hybler a proposito dell’accoglienza spesso diametralmente opposta, in Francia e in Boemia, dei libri di Kundera, la verità dell’opera comincia, agli occhi del lettore francese, proprio laddove se ne fa astrazione. Tutto funziona diversamente per l’intellettuale ceco, erede del romanticismo nazionalista, e di un’identità nazionale interamente basata sulla verità della lingua. Per lui, {“un’analisi letteraria è impensabile [...] se non ci si pone la domanda della verità, della verità dell’opera, ma allo stesso tempo della verità dell’autore”} [[M. Hybler: {Milan Kundera ou les grandes trahisons}, Liber [supplemento degli Actes  de la Recherches  en Sciences  sociales}, 1993, 100.]]. Da questo punto di vista, ciò che è valido per Kundera, lo è doppiamente per Hašek: da ciò deriva l’imbarazzo che non cessa di suscitare, nel proprio paese, il buon soldato Švejk, personaggio senza passato, che viene da nessuna parte e da ogni luogo, e il cui discorso, intrinsecamente egoista, si nutre di illogicità e ambivalenze. Ciò che si chiama, in Francia, “la derisione ceca” sarebbe allora l’emanazione di quello che il saggista Pavel Švanda chiama “l’illusione plebea” [[P. Švanda, {La réduction tchèque}, Přítomnost, 1995, 5.]], un misto di diffidenza e indifferenza di fronte a tutto ciò che sfugge alla più semplice espressione vitale. Nel suo articolo, Švanda, facendo del personaggio di Hašek il simbolo di questa “réduction tchèque”, mette in parallelo Švejk e Edvard Beneš, il presidente della Repubblica nel 1938, che rifiutò l’idea stessa di una possibile difesa del territorio da parte dell’esercito cecoslovacco, nonostante questo fosse potentemente equipaggiato. Dal punto di vista di Švejk, ogni attività che minaccia l’integrità e l’esercizio delle funzioni biologiche è assurda; dal punto di vista di Beneš, il sacrificio di vite umane, che avrebbe compromesso il fondamento biologico dell’organismo nazionale, sarebbe stato del tutto inconcepibile. Švejk, per i cechi, non rappresenta, in effetti, un’opera letteraria. Si tratta invece più di un album di famiglia che si conserva con cura in fondo al cassetto, ma che non si mostra volentieri alla presenza di estranei, se non dopo averlo censurato. A dispetto della mancanza di una dimensione psicologica e del deficit di vissuto, Švejk è paradossalmente recepito più come un personaggio storico che letterario, un lontano membro di famiglia che ha lasciato dietro di sé un ricordo eclatante, ma malgrado tutto un pó vergognoso o, al contrario, una sconfessione mista a fierezza. Lo si ammira, ma non lo si ama. E noi riprendiamo volentieri, nei nostri slanci masochisti, una delle più riuscite tra le numerose sentenze del Buon soldato Švejk: {“Siamo tutti cechi, ma è meglio tenercelo per noi”.} È probabilmente questa discutibile ambiguità – sia essa il frutto di un ragionamento pragmatico o l’espressione innocente di uno spirito semplice – che ha indotto, nel 1943, Bertolt Brecht, allora esiliato a New York, a immaginare un seguito alle {Avventure del buon soldato Švejk} [[B. Brecht, Schweyk nella seconda guerra mondiale, Torino 1961.]]. Lo si ritrova allora errante davanti a Stalingrado, sperduto nella neve, travestito, per precauzione, da soldato tedesco. Ma sotto la penna di Brecht, Švejk diventa prigioniero del proprio sistema di difesa, del gioco equivoco del mimetismo: per restare sé stesso, egli diventa il suo contrario; volendo assicurarsi la sopravvivenza, egli rischia di perire insieme al regime nazista con il quale ha voluto giocare “a chi è il più furbo”. Tranne qualche rara eccezione, la critica ceca non ha mai spinto la dialettica così lontano. La difesa elaborata da Švejk contro il potere militare è stata sfruttata, in un primo tempo, nel suo universo d’origine, l’esercito. I soldati di leva si dilettavano nella lettura del {Buon soldato Švejk} alla fine degli anni ’20, e diverse espressioni del personaggio sono diventate molto popolari. In particolare il modo di dire che Švejk usava invariabilmente nel rivolgersi ai superiori – {“Faccio rispettosamente notare che. . . ”} – ha conosciuto le sue ore di gloria. Giudicando il libro sovversivo, l’esercito non ha fatto altro che vietarne la lettura “durante il servizio militare”. Loro malgrado, sono stati proprio i graduati a creare una tra le espressioni sempre vive della lingua ceca, come “fare lo Švejk”, accusa realmente lanciata contro alcuni soldati (peraltro inutilmente, dal momento che il sistema švejkiano è militarmente indistruttibile). Insieme ad altre questa locuzione si ritrova poi negli anni ’30, in ambiente studentesco – prima che esse si diffondano definitivamente in tutta la società. Logicamente il riferimento a Švejk è divenuto fondamentale durante l’occupazione nazista: non si trattava forse una volta di più di sopravvivere, possibilmente senza danni, a un meccanismo oppressivo? Un seguito delle {Avventure del buon soldato Švejk}, il cui autore – o più probabilmente gli autori – sono rimasti anonimi, circolava sottobanco nel 1944–45, con il titolo {Il leale cittadino Josef Švejk nel Protettorato di Boemia e Moravia} [[Pubblicato dalle edizioni Karel Synek, Praha 1948.]]. Ma l’assurdità trionfante di Švejk ha senza dubbio trovato la sua fioritura più completa con l’avvento del regime comunista. Per i nuovi dirigenti si trattava allora, di un libro molto scomodo. Per parecchi anni il testo è stato ignorato, rimanendo assente dalle biblioteche e dalle librerie. La prima riedizione “comunista” è datata 1955, episodio che va collegato alla pubblicazione in Unione sovietica, dove Hašek diventa un eroe per aver abbandonato, a suo tempo, le file delle Legioni cecoslovacche per unirsi all’Armata rossa. Da quel momento in poi la critica ceca fu dunque costretta ad accettare lo scomodo personaggio: essa lo farà nella maniera più elementare, facendo entrare il suo autore nei libri scolastici come un classico della letteratura “del realismo socialista”, omettendo ovviamente con cura di menzionare alcuni racconti satirici che Hašek aveva tratto appunto dall’esperienza fatta nell’Armata rossa. In un primo tempo, il personaggio resiste assai bene a questo tentativo di recupero: nuove locuzioni sorgono nella lingua popolare e i termini “švejkismus” e “švejkování” fanno la loro apparizione per designare un preciso comportamento cosciente di fronte alle istituzioni, che, per conto loro, svolgono il ruolo che gli compete fornendo la materia stessa perché quei racconti espletino la propria vocazione: svelare l’illusione, mettere a nudo la menzogna e l’ipocrisia. Ma, nell’uso sempre più frequente dell’atteggiamento chiamato “švejkismus” come dell’unico atteggiamento sociale immaginabile contro il totalitarismo comunista, il sistema si sterilizzerà progressivamente da solo. Ed è questa sterilizzazione di una tecnica di resistenza che perde la sua efficacia nel momento in cui diviene collettiva (e arriva perfino a consolidare, nelle sue conseguenze a lungo termine, il potere che pretende di combattere), che offre allo scrittore Vladimír Vokolek il punto di partenza dell’ultima incarnazione letteraria di “Švejk”, in un racconto dal titolo {Così parlò Švejk}, scritto nel 1960, ripreso all’inizio degli anni Ottanta, e pubblicato solo quindici anni più tardi [[V. Vokolek, {Tak pravil Švejk}, Praha 1995.]]. In quest’ultima reincarnazione Švejk, divenuto guardiano del monumento alla gloria di Stalin, si sente investito degli ideali della Nuova era (ricollegandosi così anche in certa misura alla sua prima apparizione precedente alla Grande guerra), e non intende più restare lontano dalla marcia della Storia. Questa tardiva rivolta contro sé stesso, contro l’immagine che gli e stata attribuita nello schema dell’identità nazionale si rivelerà presto suicida: la negazione di ogni valore, di cui egli è stato fin qui l’incarnazione, e l’adesione a un regime basato proprio su quella negazione, di cui fa prova nella sua nuova vita, si confondono nella stessa sterilità. Cosa che permette al narratore quella risposta disincantata alla domanda “Che cosa resta dove più nulla resta?” — “Ma Švejk, è ovvio”.

L’encombrant soldat Chveïk


[1A.M. Ripellino, Praga magica, Torino 1973, p. 295.