Trattato sul buon uso del vino
Ade Zeno
La poesia e lo spirito, 31 luglio 2009
Magari non è vero, le possibilità che si tratti di una burla, di un falso clamoroso, di uno scherzo originale inventato come passatempo da un erudito d’altri tempi esistono eccome; insomma che ci si creda o no, può essere e non essere, nessun dato certo, soltanto ipotesi, suggestioni, sconfessabili speranze, ma tutto sommato le verità c’entrano fino a un certo punto quando la meraviglia per un’ipotetica scoperta oltrepassa di gran lunga l’eventualità di svelarne l’infondatezza. La supera perché in fondo mai ci saremmo figurati che dagli abissi di una biblioteca lontana nello spazio e nel tempo potesse riemergere, a oltre mezzo millennio di distanza, un clamoroso inedito attribuito nientemeno che al padre di Gargantua e Pantagruele, ovvero a quel caro vecchio sporcaccione che nella Parigi del Cinquecento si faceva chiamare François Rabelais. E invece il miracolo del riaffioramento è avvenuto proprio oggi: sgusciato fuori come un topo timido e scaltro dagli scaffali della biblioteca del Museo di Praga, il manoscritto seicentesco (per la precisione del 1662) firmato da un misconosciuto Martin Kraus de Krausenthal, funzionario della Cancelleria di Praga, viene presentato come traduzione di un certo Trattato sull’uso del buon vino, offerto ai posteri dal redattore ceco come opera «del medico ed eminente studioso Rabelais di Lione». La certezza dell’attribuzione vacilla proprio perché, almeno al momento, non esistono altre versioni del Traité, e probabilmente non basteranno le pur evidenti affinità tematiche e stilistiche all’opera rabelaisiana per convincere studiosi, esperti e filologi che intendano affrontarne il riconoscimento; ma come dicevamo, in attesa di responsi attendibili forse dovrebbe bastarci il gusto della sorpresa, apocrifa o veritiera che sia, dovrebbe insomma esserci sufficiente anche solo l’idea che l’oblio delle lettere possa ancora riservare piacevoli rivelazioni come questa. Fantasticare, del resto, non costa nulla, e come sotto l’effetto di un dolce placebo possiamo allora gustare senza troppe diffidenze un operetta buffa, goliardica, divertita, di cui già solo il titolo completo sembra avere facoltà terapeutiche: Trattato sul buon uso del vino, che deve essere abbondante & continuo, per alleviare l’anima & il corpo & contro tutte le malattie degli organi esterni & interni, composto a uso & profitto dei fratelli della corporazione dei nasi scintillanti dal maestro Alcofribas, coppiere supremo del grande Pantagruele. Pubblicato in Italia dalla piccola editrice palermitana :duepunti, e in contemporanea in Francia (per Allia editore) e Spagna (Melusina), il piccolo volume è diviso in due parti, l’una occupata dal testo – breve, si tratta di poche pagine – l’altra, invece, da una delizia aggiuntiva, vale a dire 120 splendide tavole dei Sogni bislacchi di Pantagruele, anch’esse attribuite al medesimo padre, questa volta però nelle vesti di strepitoso disegnatore. Frate, medico, colto intellettuale tentato più dalla vita che dai libri ma ugualmente disposto a condividere col mondo, attraverso le parole, una smodata propensione al godimento, alla sensualità, al ridere, il più fantasmagorico scrittore del Rinascimento anticlassico riesce ancora oggi a raggiungerci in tutta la sua irresistibile, iridescente tensione, le sue pagine conservano tuttora il potere di farci sorridere a crepapelle, di commuoverci, di parlare con noi – con i nostri vizi, coi desideri che coltiviamo sognando a occhi aperti – e non può che sbalordire il fatto di trovare non solo attuali, ma addirittura futuribili, le prodezze immaginifiche di un ometto vissuto ben cinque secoli fa. Irriverenti, leggere e sfrontate, anche queste poche righe dedicate ai nettari alcolici ci porteranno a sognare e a sbellicarci come scimmie ubriache, soprattutto ci faranno sentire a diritto membri dell’esclusiva e ambita «corporazione dei bevitori pantagrueliani», congrega senza tempo in grado di accogliere fra i suoi membri tutti coloro i quali vivono nella convinzione che «Bere il vino è, accanto al parlare smodato e alla preghiera ardente, l’attività che distingue l’uomo dagli altri essere viventi che vivono sulla terra, i volatili, i mammiferi e i rettili, ai quali Dio non ha donato l’anima umana» e che «coloro che bevono acqua si trascineranno tutto il dì senza alcun diletto». E proprio a noi, irriducibili servi delle lugubri frenesie di inizio millennio, sembrerà indirizzato il tanto semplice quanto drammatico monito in cui un frate bislacco avverte che ad ostacolare «un’impeccabile vita da bevitore» operano anche «l’incauto affaticarsi, il tribolare, il faticare e il correre di qua e di là».