C’era una volta la fine del mondo
Michele Farina
La Balena bianca, 16 novembre 2018
«Ho conosciuto un pazzo che credeva che la fine del mondo ci fosse già stata». Samuel Beckett, Finale di partita
L’apocalisse di Patrik Ourednik è molte cose e insieme nessuna di queste: l’esplosione dell’universo, un pettegolezzo, la pagina bianca tra due capitoli; oppure qualcosa di mostruoso e al contempo portatile, piccola da stare in un taschino; potrebbe essere la nostra spada di Damocle oppure evento ripetibile, un processo elastico e non definitivo. Come suggerisce una delle divagazioni di Hamm in Finale di partita di Beckett, l’apocalisse potrebbe nascondersi tra i necrologi di ieri, un trafiletto in piccolo sul giornale del giorno prima, che abbiamo mancato di registrare. Potrebbe essere il tema di un libro anche, ciò di cui in parole povere si parla di più, altrimenti il buco nero da cui fluisce la scrittura, lo spettro che ne infesta la fonte più profonda. «Più ci sono scrittori, più c’è esasperazione. O sono scadenti: la loro nullità ci affligge; oppure sono bravi: quello che dicono ci opprime»: recita così una delle 111 brevi sezioni che assemblano La fine del mondo sembra non sia arrivata (Quodlibet 2018), ultimo lavoro di Patrik Ourednik, autore che, su questo non c’è dubbio, fa parte della seconda e più ristretta famiglia di scrittori. Ma facciamo un passo indietro. Il merito per le prime traduzioni italiane dei libri dello scrittore di origine ceca, ma trapiantato in Francia dall’84, va all’intuito della compianta editrice palermitana :duepunti, che nella seconda metà del decennio scorso ne ha diffuso i titoli principali: tra questi campeggia quel libro alieno che è Europeana. Breve storia del XX secolo, tradotto con successo ormai in decine di lingue e ripubblicato da Quodlibet nel 2017. Nello stesso anno appare in Francia quest’altro oggetto non identificato che è La fin du monde n’aurait pas eu lieu. Un capriccio del più stupido dei presidenti americani, ansioso di reperire un consigliere europeo per alonare il proprio staff di originalità continentale, catapulta Gaspard Boisvert, traduttore francese di mezza età, al fianco dell’idiota più influente del pianeta, ponendolo in una posizione che gli permette di accogliere in prima persona i pensieri, i pregiudizi e i ragionamenti di colui che tira i fili del teatrino mondiale; oltre a ciò, Gaspard, la “lumaca transatlantica” del presidente, si trova impegnato in un’indagine sul proprio passato che lo costringerà a ripercorrere una delle pagine più oscure della civiltà occidentale. Queste sono grossomodo le coordinate “romanzesche” del libro di Ourednik, che ogni tanto affida la regia delle operazioni ad un narratore in prima persona, ma che spesso si diverte nello sfruttare differenti procedimenti discorsivi, grafici ed iconici, per veicolare le diverse sfumature del suo umorismo. Altre volte, non importa neanche riconoscere la fisionomia di chi sta parlando, come accade in alcuni magistrali dialoghetti che animano il libro, assurdi e lucidissimi. Non è tanto cosa il libro racconta a essere così accattivante, quanto la maniera, il come dell’autore, ossia il suo straordinario lavoro di messa in forma del materiale verbale. La scrittura di Ourednik è il prodotto di un’intelligenza certamente fuori dal comune, che mina in modo sistematico le certezze di chi legge, facendogli mancare la terra sotto i piedi. In questo gioco il linguaggio è sia il bisturi che il corpo da sezionare: «Insomma, la lingua si evolveva. Fedele al suo compito di esprimere il pensiero del momento, si era rincoglionita. Oratori di una stupidità tale da sciogliere l’Antartide circolavano impunemente». Per un magnifico paradosso squisitamente letterario, la scrittura in apparenza più sfuggente e imprendibile finisce per mettere al mondo libri che solleticano la fantasia di ogni secolo, i cosiddetti classici. Ancora una volta Ourednik si conferma uno dei maggiori divagatori del panorama europeo contemporaneo, un fool che qui da noi avrebbe fatto la felicità di lettori come Giorgio Manganelli, l’autore di La letteratura come menzogna, manifesto a cui il narratore di un altro libro di Ourednik, Istante propizio, 1855, recentemente riproposto da Exorma, sembra fare un ideale controcanto: «La scrittura è verità, la letteratura è menzogna. Chi scrive sonda le sue reni e trova le sue parole; chi fa letteratura le impila».