Il genio folle di Patrik Ourednik e la fine del mondo mancata
Giuseppe Rizzi
Il rifugio dell’ircocervo, 17/09/2018
Patrik Ourednik fa genere a sé. Nato a Praga nel 1957 e residente in Francia da tempo, Ourednik è tra gli scrittori più originali, eterodossi, stravaganti che possiate capitare a leggere. Nel 2001 è divenuto noto per il falso storico Europeana, un libro inclassificabile, un romanzo eccentrico sotto forma di finto manuale di storia, che racconta, da una nuova prospettiva, il XX secolo.
In queste settimane è arrivato in Italia, da Quodlibet, il suo ultimo romanzo, La fine del mondo sembra non sia arrivata. E possiamo ritrovare l’Ourednik più lucido, folle e geniale, totalmente fuori dagli schemi, cinico e irriverente.
Che cos’è allora questo libro: un romanzo? Un saggio? Una antologia di scritti? Uno scherzo?
Il protagonista della narrazione è Gaspard Boisvert, il consigliere di un presidente americano, ma non uno qualsiasi, bensì il più stupido della storia, e noi tutti capiamo immediatamente a chi l’autore faccia riferimento. Gaspard ha anche un segreto, si dice a un certo punto: suo padre potrebbe essere figlio di Adolf Hitler.
In verità Gaspard non ha la dignità propria di un protagonista. L’autore lo mette ai margini, se ne dimentica per lunghe pagine, lo riprende qua e là quando conviene. Le ragioni sono due.
La prima è che Gaspard, effettivamente, è un falso filo rosso dell’opera. Il vero protagonista de La fine del mondo sembra non sia arrivata è il mondo stesso. Ourednik prende a pretesto le sue vicende per raccontare la società occidentale, e lo fa come fosse un alieno che descriva il pianeta degli uomini ad altri alieni, attraverso un ribaltamento di prospettiva che mostra a noi stessi i nostri aspetti più contraddittori e grotteschi. Al tempo stesso racconta come se a parlare fosse uno sciocco, attraverso una candida e irriverente ingenuità, la quale deriva da un’osservazione priva di preconcetti culturali, simbolici, ideologici, e nasconde un importante sostrato di conoscenze sociologiche e politologiche buttate sapientemente in caciara.
La seconda ragione è che Ourednik, come sua caratteristica principale, scrive nella maniera opposta a come si dovrebbe scrivere un romanzo: fa tutto, volutamente, nel modo sbagliato. Sono un esempio i capitoli che si susseguono in un ordine apparentemente privo di senso, con una magistrale sconclusionatezza. Si tratta di capitoli brevissimi, in media una pagina o due, a volte solo qualche riga, nei quali al racconto bislacco di Gaspard si alterna un florilegio di pillole e digressioni più disparate: rapporti di pseudo-ricerche, dialoghi tra Ourednik e il suo editore sulla genesi del libro stesso, episodi della biografia di Hitler, apologhi, barzellette e soprattutto riflessioni ironiche e ciniche su una varietà di argomenti: religione, politica, editoria, terrorismo, guerre, stupidità, progresso, cambiamenti climatici, ecc.
Oltre alla ricercata incoerenza e agli errori voluti, avvertiamo un contrasto tra la seriosità dell’impostazione della narrazione – quasi fosse un saggio, con tanto di statistiche e grafici (fasulli) – e la superficialità delle considerazioni a cui giunge. Di fatti l’autore non pretende di offrire soluzioni né svelare verità ignote: ci parla di argomenti e temi che ben conosciamo, ma nel ribadirne pleonasticamente l’ovvietà, nel liberarli dalla cornice simbolico-culturale mediante la quale li intendiamo, ci mostra, a volte spietatamente, ciò che era sempre stato dinnanzi ai nostri occhi e che non avevamo saputo notare, quasi squarciando un velo di Maya sulle illogicità, le incoerenze del nostro vivere sociale. Finiamo per prenderne coscienza, dire “è proprio vero” e subito ridere di noi stessi.
Questo insieme di contraddizioni, paradossi, incongruenze e antinomie produce un effetto esilarante. E il lettore da subito capisce il messaggio dell’autore: faccio tutto a modo mio, come mi pare, non mi importa di niente e di nessuno.
Ourednik si prende gioco delle forme e delle regole della produzione letteraria, ed anche di se stesso e di tutti. Il suo è uno scherzo serio, sta divertendo e divertendosi, ma al tempo stesso sta osando e rivoluzionando nella forma, sta proiettando uno sguardo sagace di sprezzante, impietosa ironia sulla nostra contemporaneità. La sua è l’attenzione d’analisi che può avere uno scienziato sociale: indaga i più problematici, impellenti nervi aperti della società, e le considerazioni brillanti che ne derivano non sono salmodiate con distacco e seriosità, ma affidate all’umorismo – inteso, oltre che in termini correnti, anche nell’accezione pirandelliana di sentimento del contrario.
Quest’accezione dell’umorismo, come lente per osservare e raccontare il mondo, trova in una definizione di Milan Kundera – non a caso un boemo come Ourednik – la sua perfetta espressione: «Lo humour: lampo divino che rivela tutta l’ambiguità morale del mondo […], l’euforia che nasce dal conoscere la relatività delle umane cose, il bizzarro piacere che deriva dalla certezza che non ci sono più certezze» (corsivi miei).
Queste parole, infinitamente meglio di quanto possa fare io, spiegano che significato abbia l’umorismo di Ourednik e da quale assunto parta.
Per arrivare alla domanda iniziale: che cos’è La fine del mondo sembra non sia arrivata?
È un racconto geniale e assurdo, di piacevole, briosa e illuminante lettura;
Un’opera destrutturata e sui generis, solo in apparenza sconclusionata e incoerente;
Una raccolta di satire oraziane dei nostri tempi che nulla e nessuno risparmiano;
Un romanzo sulla società occidentale dei nostri giorni, che ci parla dei più caldi temi della nostra esistenza attraverso un’impostazione giocosa e una falsa superficialità, dietro le quali si cela invece una lucidità visionaria;
Un libro tanto cinico quanto colto, che fa ridere e riflettere, che offre appagamento intellettuale e intrattenimento puro al lettore più esigente.