La verità di un’epoca
Testo della conferenza tenuta a Perugia il 9 ottobre 2009 nell’ambito della rassegna «Leggere e scrivere tra più culture: libri e biblioteche dell’Unione Europea».
Ciò che mi interessa nella scrittura – in quella degli altri come nella mia – è quello che di solito viene definito «la verità di un’epoca». Il termine è senz’altro estremamente vago perché in ogni epoca esistono e coesistono verità diverse, verità molteplici. Il gioco consiste allora nel tentativo di raccogliere, di abbracciare questa moltitudine, questa pluralità di cose. Un autore dispone di diversi mezzi, il più consueto dei quali è il confronto dei destini, delle vite umane nell’ottica della microstoria.
Per quanto mi riguarda, tento, almeno in alcuni dei miei libri, di applicare un principio un po’ diverso, a partire dalla premessa che è possibile prendere come sinonimo della «verità di un’epoca» la lingua di quell’epoca, il che significa appropriarsi di un certo numero di tic di linguaggio, di stereotipi e di luoghi comuni per fare in modo che agiscano e che si confrontino alla stessa stregua dei personaggi di un racconto tradizionale.
Proprio come gli storici, gli autori lavorano con scritti, cronache, corrispondenze, giornali d’epoca, ecc. Ci si può accostare a questi scritti in due modi. Si può – ed è quello che fanno gli storici – cercarvi innanzitutto (non necessariamente in modo esclusivo, ma in modo prioritario) l’informazione sull’avvenimento stesso, «che cosa è successo», «che cosa è accaduto». Oppure possiamo cercarvi soprattutto il modo in cui l’avvenimento è trattato. In altre parole, non si tratta più, secondo tale prospettiva, di sapere chi ha vinto la battaglia di Solferino, ma di vedere come gli storiografi l’hanno descritta. La verità dell’epoca risiede nella descrizione, non nell’avvenimento in sé. Nella reazione, non nell’azione. I destini umani seguono la stessa traiettoria: ci costituiamo attraverso l’interpretazione che diamo di questo o quell’avvenimento.
Tutto questo in realtà è piuttosto banale, come gli stereotipi che ci permettono di esistere. Personalmente tendo a credere che la vita umana sia di per sé di una banalità desolante, qualsiasi siano, peraltro, gli orrori che possono accaderci nello spazio di una vita. Ma, per l’appunto, esprimere la banalità in letteratura è piuttosto delicato. Assai paradossalmente la banalità è inverosimile finché non le diamo una forma: ed è qui che intervengono tanto la storiografia quanto la letteratura. Nei due casi, il contenuto, supposto sinonimo della realtà, non ha esistenza alcuna. Il contenuto è un mucchio di sabbia virtuale e per trarne una qualsiasi realtà dobbiamo prima di tutto metterlo in un secchiello, bagnarlo con acqua e farne un castello. È sempre lo stesso mucchio di sabbia, ma nel frattempo è diventato, a seconda dei casi, manuale di storia o opera letteraria. In entrambi i casi, si ricorre, coscientemente o meno, a stereotipi e luoghi comuni, proprio perché il luogo comune è il solo luogo dove ci si può ritrovare in comune.
I destini umani per quanto banali non sono intercambiabili. Il problema della letteratura è che questa consiste nell’inglobare le cose in una struttura più o meno premeditata, in un’architettura che inevitabilmente comporta una gerarchizzazione. Se c’è una cosa al mondo che dovrebbe sfuggire a qualsiasi gerarchizzazione sono proprio le vite umane e i destini individuali. Gli stereotipi – i miei cari stereotipi – sono intercambiabili pur lasciando apparire, attraverso la loro insopportabile semplificazione, un’altra verità, un’altra esperienza, un altro destino.
In altre parole, se si vogliono denunciare i pregiudizi, i cliché, i luoghi comuni, bisogna porsi al centro di questi luoghi comuni, al centro dei discorsi generali, al centro delle idiozie di ogni sorta.
Per rendere conto della pluralità delle verità umane – e dunque essere in grado di leggere ed eventualmente di comprendere la Storia – bisognerebbe poter presentare le cose in modo esploso, disperso, in modo non gerarchizzato, in modo pressoché completamente orizzontale. Bisognerebbe anche rendere gli elementi che costituiscono un testo, un racconto, bisognerebbe renderli mobili, sfuggenti, fare sì che si sottraggano in continuazione.
Bisognerebbe anche controllare che «verità» non sia mai pronunciata al singolare. La verità al singolare non può non essere stereotipata nella misura in cui intende avvicinarsi il più possibile alla generalità. E se si dice spesso che la letteratura è una protesta contro la cancellazione delle cose nell’oblio, bisogna aggiungere: o nella generalizzazione concettuale – che fa scomparire l’esperienza di una vita, l’immagine di una vita esattamente come l’oblio.
Il problema è che la società ha orrore del plurale. La società non può poggiare su basi mobili. La società ha bisogno di una storia collettiva formulata chiaramente e, pertanto, di una verità in qualche modo sovra-vera. Una verità posta sulla cima della costruzione sociale, una verità verticale e immobile. Abbiamo dunque da un lato uno schema in cui tutto è sfuggente, dall’altro la necessità di produrre un certo numero d’illusioni grazie alle quali è possibile raggiungere un linguaggio comune che, a sua volta, ci darà un luogo comune, in senso proprio come in senso figurato.
Da questo punto di vista, la letteratura è un’illusione al quadrato: col pretesto di dimostrare il carattere illusorio di una qualsiasi verità sociale, produce essa stessa l’illusione di un’altra verità che sarebbe più giusta e più nobile. In realtà, non fa altro che opporre quel processo di fabbricazione della realtà che le è proprio ad altri processi che, tuttavia, sono altrettanto legittimi.
Di conseguenza, se la letteratura deve avere una qualsiasi funzione – al di fuori del diversivo e, eventualmente, dello stimolo intellettuale –, le attribuisco il ruolo dell’abbazia di Thélème di Rabelais, cioè di uno spazio in cui è bello soccombere alle illusioni in compagnia di persone che la pensano esattamente come noi. Se adotteremo tale progetto, quello dell’abbazia di Thélème, che è un progetto eminentemente elitario, se lo renderemo universale, otterremo, de facto, l’utopia anarchica, ovvero un mondo in cui le verità e le identificazioni coesistono non più verticalmente, ma orizzontalmente, e ciò nonostante pacificamente.
Se un giorno questo mondo si realizzasse, la letteratura perderebbe la sua ragion d’essere. Non si può avere tutto, un mondo senza conflitti – la famosa fine della Storia che abolirebbe il tempo storico – e la letteratura.
Traduzione di Marika Piva