I TEMPI SONO MATURI
di Patrik Ourednik
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Questo mi ha permesso di constatare che tempi sono maturi per un bel po’ di cose. I tempi sono maturi, per esempio, cito, per un nuovo gruppo di soggetti indomiti, uniti e accomunati dalla medesima storia. Quale storia? L’articolo non lo precisava. Probabilmente una storia di futuro. Si svolgeva in Libia. In Belgio, invece, i tempi sono maturi per una svolta. Quale? Non lo saprò mai, a meno che non ne sia testimone quando verrà il momento. I tempi sono maturi per stabilire relazioni diplomatiche con la Cina. Lo dice la Santa Sede. I cinesi, quanto a loro, pensano piuttosto che i tempi siano maturi per smetterla una buona volta di parlare del Tibet. I tempi sono maturi anche perché gli uomini riflettano. Le donne, è più emozionale. I tempi sono maturi anche per gli innovatori africani, perché spostino l’asticella un po’ più in alto. L’autore non diceva che genere di asticella, pazienza. Comunque sia, i tempi sono maturi per soluzioni audaci e per il cambiamento. Anche in questo caso non ho capito cosa volesse esprimere l’autore, quindi ho cercato in un vocabolario che vuol dire la parola “cambiamento”. A quanto pare, cambiamento vuol dire molte cose: evoluzione, metamorfosi, modificazione, mutazione, travestimento, deformazione, trasfigurazione, trasformazione, trasmutazione, variazione, modulazione, trasposizione. Qual era il cambiamento in questione? I tempi sono maturi per una deformazione o per una mutazione? Una metamorfosi o una trasposizione? Chi lo sa.
Altri tempi sono altrettanto maturi. Alla rinfusa: Per mettersi in movimento. Per una scienza economica in cui si dica pane al pane. Per un modello alternativo di società. Per un rilancio del movimento internazionale dei malati di AIDS. Per un aggiornamento intellettuale. Per il ritorno dell’anima. Per ritrovare la fratellanza rivoluzionaria. Per un significativo sviluppo degli strumenti extragiudiziari. Per un’alternativa politica di sinistra. Per una soluzione politica di destra. Per superare la miopia di una visione incentrata sulla produzione di beni e servizi. Per trarre le conclusioni in termini di misura della ricchezza e del progresso al fine di orientare le politiche pubbliche in direzione dell’obiettivo globale della durabilità felice. Ho l’impressione che non abbiate capito bene. Ricomincio: i tempi sono maturi per trarre le conclusioni in termini di misura della ricchezza e del progresso al fine di orientare le politiche pubbliche in direzione dell’obiettivo globale della durabilità felice.
Infine, i tempi sono maturi anche, e concluderei così, per i veicoli a trazione elettrica. «L’automobile di domani, è già oggi», diceva l’articolo. Mi ha fatto pensare a un libro incluso obbligatoriamente nei programmi scolastici di tutti paesi comunisti, quando ero giovane, che si intitolava «Il paese dove domani significa già ieri»: il paese in questione era, come avrete capito, l’Unione Sovietica. Peraltro vale ancora per la Russia attuale: dato che lo ieri e il domani si auto-clonano vicendevolmente essendo incarnati, in carne e ossa, dal presidente e dal suo primo ministro.
Il tempo sarebbe dunque intercambiabile, sostituibile a se stesso, andrebbe e verrebbe come gli pare. Contrariamente a quanto ci insegna la tradizione giudaico-cristiana. Diversamente dalle altre civiltà, quella giudaico-cristiana mette in scena il tempo lineare, un tempo che parte da un punto A per raggiungere un punto Z. Senza una trovata del genere non si sarebbe potuta immaginare la fine del mondo – e non semplicemente di un mondo, come fa la teoria ciclica. Senza una trovata del genere non si sarebbe potuto parlare di un tempo ancora acerbo, di un tempo agrestino, di un tempo che giunge a maturazione, poi di un tempo serotino, un tempo la cui sostanza, troppo matura, si è rammollita; e infine di un tempo marcio. Perché i tempi maturi sono come i frutti: dopo che maturano, marciscono.
La Storia è piena di tempi marci. Quella dell’Europa in particolare, dal momento che abbiamo deciso, dai tempi di Erodoto, di affidare tutti i tempi della Storia ai libri, perché le generazioni future sappiano come regolarsi.
Abbiamo inventato la Storia per organizzare il tempo? O abbiamo inventato il tempo per organizzare la Storia?
La Storia è una cosa complicata. Abbiamo una Storia positivista, un’altra quantitativa, una terza cosiddetta dialettica, una quarta cosiddetta totale. Abbiamo anche la Storia contemporanea e la Storia del presente. Qual è la differenza tra le due? Se ci affidiamo all’Enciclopedia universale, la Storia del presente è più circoscritta, perché delimitata dalla “memoria viva”, cioè dalla presenza dei nostri contemporanei che hanno vissuto questo o quello quando avevano già raggiunto l’età della ragione, quindi di un possibile ragionamento. L’Enciclopedia universale parla di un lasso di tempo di sessant’anni. Sessant’anni di una vita ragionevole sono dunque l’età della pensione storica. Da portatori di una memoria ci trasformiamo in archivi.
«Ehi, classificatore, come va?»
«Non c’è male, cartella!»
Personalmente, tendo a considerare la Storia come una svendita di destini umani che un tempo erano uniti da qualcosa ma che oggi costituiscono un ammasso più o meno informe. Come un romanzo virtuale edificante scritto da storici perversi. Come un’opera teatrale assurda. Come una tragicommedia con personaggi dalla parlata anacronistica usciti di casa indossando dei costumi strani.
La Storia è tragicomica, quindi fa piangere: dal ridere o di stizza, dipende.
Cosa ce ne facciamo dei tempi che a forza di maturare sono marciti? Come sappiamo, la maturazione è un processo di decomposizione. Il sinonimo, in questo senso, di putrefazione. E non potremo sottrarci, durante questi quattro giorni di incontri intorno a un tema comune – «vivere sul limite dei tempi» – all’interrogativo seguente: i tempi, oggi, sono maturi? E in tal caso, maturi per cosa? O forse sono già marci? E se così fosse, cosa dobbiamo farcene? Dov’è la compostiera per depositare i nostri residui ormai maleodoranti?
Ciò che finora ha incarnato la nostra compostiera, la nostra garanzia di sopravvivenza, la nostra promessa di ri-fertilizzazione, era l’idea, comunemente ammessa, di una qualche sorta di trascendenza. Di qualcosa che sia indipendente dai fatti. Che sia esterno alle coscienze. Di un elemento trasversale e sacro, dove sacro non è necessariamente sinonimo di religioso: è possibile sacralizzare dei concetti profani. C’è stato un tempo in cui la Francia aveva proposto una nuova sacralità, peraltro fondandosi sui dogmi cristiani, cioè l’esclusività della verità, l’universalismo, il sacrificio, la fede guidata “dalla ragione e dal cuore” ecc. Ma i personaggi erano cambiati. Guardiana del nuovo mondo era la dea Repubblica, Dio Padre era sostituito dal Popolo, la corona del Cristo dal berretto frigio, la croce dal timone, simbolo per eccellenza, le processioni dei fedeli dalle sfilate popolari.
I tempi erano maturi per nuovi tentativi, nuove esperienze. I “empi maturi sono i tempi dell’utopia. Anche a costo che dopo vengano i postumi della sbornia, una disillusione, una delusione, una fine dei tempi, una fine di un mondo.
Beninteso, le disillusioni ci sono sempre state, nel corso della Storia: anzi, è in questo che consiste la sua trama. La differenza, oggi in Occidente, mi sembra stia nel fatto che a queste disillusioni non diamo più risposta nei termini di una nuova utopia. Per quanto l’utopia abbia potuto essere sinonimo di finzione, di mito, di illusione, è solo grazie a una finzione come questa che la società può sopravvivere. È la finzione a permettere alla Storia di continuare, è il mito a dare alla Storia un senso.
Ed è proprio la parola “finzione” il sinonimo più adatto della realtà. E non solo per quanto riguarda la Storia. Da un punto di vista etimologico, la finzione è «la maniera di plasmare, di modellare» qualcosa, cioè la realtà. Ora, è proprio in una realtà plasmata, modellata, che viviamo la nostra vita reale, che viviamo le nostre sensazioni reali, le nostre emozioni reali, o perlomeno ne siamo convinti, il che poi è lo stesso.
In altri termini, perdendo la capacità di immaginarci come facenti parte integrante di una finzione, arriviamo addirittura a smarrire la nostra realtà. Una società senza miti e senza illusioni è destinata a scomparire, a dissolversi, a decomporsi, a putrefarsi. Sotto questo aspetto, mi sembra che la società occidentale, e più particolarmente quella europea, abbia oltrepassato lo stadio dei tempi maturi.
Traduzione di A. L. Carbone. In francese : Les temps sont mûrs