Lo scrittore che mette l’apocalisse in una stanza
Giorgio Vasta
La Repubblica, 22 settembre 2011
“Oggi e dopodomani” di Ourednik: storia ironica di cinque sopravvissuti
Cinque uomini in una stanza. Dal soffitto penzola una lampadina, sul pavimento di legno ci sono alcune sedie, più in là una pendola ferma alle undici e cinquantacinque. Da qualche parte c’è anche una porta di cui non si sa bene cosa fare. se spingerla o tirarla a sé. una porta alla quale fra l’altro manca la maniglia. Fuori dalla stanza non c’è più niente, il mondo si è dissolto e ai 5 uomini non resta che farsi domande – seriamente oziose, oziosamente serie – sulla fine del mondo.
Questa la premessa, essenziale e stilizzata, del nuovo libro di Patrik Ourednik. Un autore inclassificabile – praghese del 1957, dal 1983 residente a Parigi, traduttore e redattore di enciclopedie, in Italia ancora relativamente percepito mentre in altri paesi costituisce un punto di riferimento – che qualche anno fa con Europeana. Breve storia del XX secolo (:duepunti edizioni) ci ha consegnato un testo capitale per la comprensione di quel caos al contempo autodistruttivo e fertilissimo che è stato il Novecento.
Con Oggi e dopodomani. Discorsi di cinque sopravvissuti (:duepunti edizioni) Ourednik si concentra nuovamente, questa volta nella forma della pièce teatrale, sui temi che sembrano valere come passione motrice della sua scrittura: le forme del tempo, i termini nei quali ne facciamo esperienza, il desiderio di fabbricare qualcosa, dentro al tempo, e l’impulso umano (a quanto pare incoercibile) verso un cupio dissolvi, il tragicomico strutturale di ogni intenzione terrestre, l’indistinguibilità di fine e inizio, di genesi e apocalisse. Tanto che i cinque sopravvissuti alla catastrofe (fra l’altro una catastrofe di profilo umilissimo, esteticamente riprovevole, squallida e disarmata: nessun «sole in agonia, cielo disseminato di meteoriti, masse in preda al panico»: l’umano nonè all’altezza neppure della propria fine), se da un lato sono – o suppongono di essere – i superstiti, dunque coloro i quali esistono postumi, proprio per questo, se soltanto riuscissero a fecondare qualcuno o qualcosa, sarebbero i nuovi progenitori; a loro, dunque, toccherebbe domandarsi se “dopo quello che ha passato l’umanità” avrebbe senso far ricominciare tutto da capo.
Attraverso un reticolo di dialoghi implacabilmente umoristici tra personaggi sradicati – teneri e inermi, stupidi o intelligenti ma sempre inutilmente intelligenti – Ourednik ci chiarisce che la fine del mondo è il gioco di società (del resto lo si gioca discutendo intorno a un tavolo) più comicamente perverso che siamo stati in grado di inventarci, un azzeramento temuto eppure desiderato, un bisogno di oblio e un’illusione di palingenesi. In questo modo, una pagina dopo l’altra, si va componendo l’equivalente, in ambito letterario, di un grafico inque uomini in una stanza. Dal soffitto penzola una lampadina, sul pavimento di legno ci sono alcune sedie, più in là una pendola ferma alle undici e cinquantacinque. Da qualche parte c’è anche una porta di cui non si sa bene cosa fare, se spingerla o tirarla a sé, una porta alla quale fra l’altro manca la maniglia. Fuori dalla stanza non c’è più niente, il mondo si è dissolto e ai 5 uomini non resta che farsi domande – seriamente oziose, oziosamente serie – sulla fine del mondo.
Da un lato, mentre viviamo immersi in un flusso disorganico di eventi, la fine è funzionale al tentativo umano di misurare il tempo per estrarne una forma e una possibilità di comprensione ultima. Dall’altro lato,a un certo punto ai cinque sopravvissuti sorge un dubbio: e se la fine del mondo fosse già avvenuta? Se fosse avvenuta tutte le volte in cui è stata immaginata? Se fosse cioè intessuta al quotidiano, non un vertice estremo ma parte integrante del nostro modo di pensare al tempo? A quel punto si dovrebbe capire cosa significano le nostre esperienze emotive – cosa significa la nostra paura, la psicologia millenaristica – nel momento in cui temiamo qualcosa che non è là da venire ma è già stato e continua a esserci.
Forse dobbiamo allora ragionare sul senso della frase che un paziente psicotico disse a Donald Winnicot: «Ho paura di una catastrofe che ha già avuto luogo». Ovvero: il confine che separa il tempo dal suo collasso è già stato varcatoe non ce ne siamo resi conto, la fine del mondoè l’esperienza di un passato sempre presente che non abbiamo mai saputo metabolizzare. È qualcosa che è venuto meno, una lacuna. La stessa lacuna con cui i personaggi di Ourednik si confrontano quando fanno i conti con la porta che conduce (che condurrebbe) fuori. «La storia dell’umanità è piena zeppa di invenzioni di ogni genere. Lo sgabello del ciabattino, la cruna dell’ago, la ruota, il paracadute, lo scafandro (...) L’immaginazione umana è insaziabile». Eppure l’immaginazione umana «ha dimenticato di inventare la maniglia della porta». Tra la fine e il fine permane uno scarto irriducibile. Manca un senso che faccia da tessuto connettivo. La letteratura – e quella di Ourednik ne è un esempio splendido – è la voce che parla nella lacuna.