Intervista a Patrik Ourednik
di Giorgio Vasta
Notable, 2, Aprile – Giugno 2007
GV: In Europeana, la particolare morfologia del linguaggio – il fatto di eliminare del tutto le virgole e collegare le parti della frase tramite la congiunzione “e” – determina nel lettore la percezione di un tempo “morbido” e permanente, di un larghissimo presente nel quale la Storia, tutta insieme, accade e continua ad accadere. Qual è la ragione di questa scelta?
PO: L’ha appena formulata: si trattava di abolire i riferimenti temporali. Abolire, invalidare i riferimenti temporali – mi sono detto – permetterà che altri riferimenti appaiano. Riferimenti incerti, vacillanti. È in questo vacillare che possono trovare rifugio frammenti di verità altri, altrettanto incerti.
GV: La Storia del Novecento che viene fuori dalla lettura del suo libro è lontana e piccolissima. È come osservare un luogo – il mondo – e un tempo – il secolo appena passato – da una distanza immensa. L’effetto è meravigliosamente straniante. Qual è l’idea di Storia che ha voluto concentrare in Europeana?
PO: Non avevo l’ambizione di imporre, o anche solo di proporre una qualche visione di alcunché. Quello che mi interessa nella scrittura è provare nuove forme. Europeana è la risposta alla domanda: è possibile esprimere un lasso di tempo, un periodo storico dato, circoscritto tanto in date-limite quanto in cliché e in stereotipi di ogni sorta, in modo diverso rispetto ai mezzi narrativi tradizionali, siano essi diretti o allusivi, romanzo storico o racconto intimista? Trovare una forma che permetta al testo – come accade alla Storia stessa – di essere spaventosamente banale facendo finta al tempo stesso di essere interessante. Credo profondamente nella banalità delle cose: ma perché la banalità diventi verosimile, bisogna metterla in forma. È questa – la forma – ciò che rende il vero simile. Una banalità che non sia stata messa in forma è a tal punto banale che nessuno ci crede. È banale a tal punto da divenire singolare, quindi mendace.
GV: Abbiamo appena detto, riferendoci al Novecento, “il secolo appena passato”. Affermazione profondamente opinabile. In che modo il Ventesimo secolo continua e – così sembra – continuerà a rivestire un ruolo centrale nella nostra esperienza e nel nostro immaginario?
PO: La suddivisione del tempo in sezioni regolari è una cosa molto comica, che si tratti del secolo, della settimana, della giornata. Eppure vi abbiamo fatto l’abitudine senza sforzi: ci permette di avere fretta, e avere fretta vuol dire sentirsi importanti. Che il tempo sia una creazione psicologica? Altrimenti, a che serve? Nell’Abbazia di Thélème l’orologio è vietato perché, come riassume Gargantua, «non c’è perdita di tempo più grande che contare le ore».
Detto questo, personalmente ho un debole per l’arbitrarietà: è l’arbitrarietà che ci permette di mettere in forma le cose che finora erano state difformi. Mettendo le cose in forma, possiamo informarci l’un l’altro.
«Che tempo orribile!»
«Sì, ma si ricorda nell’ottantacinque?»
«Da quand’è che lei è morto?»
«Sarà esattamente da un mese domani».
Il Ventesimo secolo continua? Vale a dire: è sempre all’opera? Personalmente, sono un hobsbawmiano per quanto riguarda l’inizio del secolo: 1914, sì, è una buona data per salire sul treno di quello che diventerà il Ventesimo secolo. Quanto alla fine, che Hobsbawm ha decretato nel 1989, non ne sono convinto: la fine del comunismo è di certo la fine di un mondo – ne so qualcosa – ma il cambiamento delle mentalità non si è prodotto, contrariamente a quanto accadde nel ‘14-‘18. Opterei forse per l’11 settembre 2001, perché quel giorno si ebbe conferma, fino ai confini estremi del mondo televisivo, del processo che aveva avuto inizio tre o quattro decenni prima, cioè l’avvento del post-umanesimo in quanto sostituzione dell’immagine e dell’immediatezza allo scritto e alla presa di distanza. Le parole non colpiscono più: d’ora in poi, a ciascuno la sua videocamera digitale. Solo che, secondo il Washington Post, il 30% degli americani sono oggi incapaci di dire in che anno quel nine eleven ha avuto luogo. È un bel problema se si vuole far cominciare il secolo precisamente da quell’anno.
GV: Nel suo libro non ricorrono mai i nomi propri dei cosiddetti grandi personaggi della Storia. Non c’è Hitler, non c’è Mussolini, non c’è Stalin, eppure ci sono i conflitti che a questi personaggi sono legati. Ci sono i soldati, ci sono i popoli e ci sono gli uomini. Tutti minuscoli. Da questo punto di vista, la Storia del Novecento raccontata in Europeana è una storia “anonima”, una storia di persone e non di personaggi. Una storia dei minuscoli. Si delinea una prospettiva intensissima sulle cose, una specie di nuovo umanesimo. Da cosa discende la scelta di raccontare a partire da un coro e non dalla canonica individuazione di uno o più personaggi sempre riconoscibili?
PO: Per me non si trattava di proporre un narratore “anonimo”, ma di stabilire, in qualche modo, l’assenza di un narratore. Il coro impedisce di identificare chi parla. Ma qui si tratta di un narratore che è sempre lo stesso, unico (o della sua assenza) – quindi non è un coro.
In ogni caso, la questione ha provocato nei critici un profluvio di interpretazioni. Si tratta di un extraterrestre? Di un professore di discorsività particolarmente perverso? Di Bouvard senza Pécuchet, di Pécuchet senza Bouvard? Del “buon selvaggio” rousseauviano? Di Candido redivivo? Del Benjy di Faulkner con qualche punto percentuale di QI in più? Di uno storico impazzito?
Personalmente, non l’ho mai incontrato… non so chi sia.
GV: La prospettiva “dall’alto” che caratterizza Europeana non dà mai luogo a uno sguardo altezzoso. Tutt’altro. Man mano che la lettura procede sentiamo il generarsi di una solidarietà fortissima verso tutto ciò che di umano viene raccontato. Incontriamo qualcuno di cui ci viene narrata una scheggia di esistenza, lo perdiamo e lo ritroviamo venti pagine dopo oppure non lo ritroviamo più. Sembra quasi che ci sia come una “deriva”, uno slittare di pezzi di mondo verso qualcosa di difficilmente definibile. Ogni tanto qualcosa riaffiora ma prevalentemente si perde. Cosa sta succedendo alla nostra percezione del mondo?
PO: Tre o quattro secoli or sono, la nostra percezione del mondo si è fatta a sua immagine: plurale, multipla, opzionale, in attesa di diventare, più di recente, spezzettata, frammentata. Poi il frammento è diventato brano. La storia del genere umano, come la letteratura la istituisce fin dal giorno in cui un pentadattilo si è messo a scrivere, è costituita da milioni di frammenti di frasi che corrispondono a milioni di brani di vita – e di carne. Non so quale sia o quale debba essere la nostra percezione del mondo. L’immagine dei “pezzi di qualcosa” che ritornano a galla di tanto in tanto in una specie di marea, in fin dei conti, è piuttosto seducente.
Traduzione Andrea Carbone e Francesca Togni.