Istante propizio, 1855
Alessandro Catalano
eSamizdat, V, 3, 1 dicembre 2007
Nel mare di letteratura che in questi ultimissimi anni sta rischiando di sommergerci, è una gran fortuna che, con la solita eleganza unita a una caustica forza distruttrice nei confronti di tutto ciò che ci circonda, sia tornato nelle librerie italiane Patrik Ouředník con il suo penultimo libro, Istante propizio, 1855, un vero e proprio inno non soltanto all’anarchia, ma alla scrittura: “Non mi sottraggo alla scrittura; non ho che farmene della letteratura. La scrittura è verità, la letteratura è menzogna” (p. 12). E se la scrittura può essere un modo di frantumare il mondo e riprodurlo dopo averlo filtrato attraverso un prisma originale, Ouředník trascina nel testo tutto il mondo che conosciamo, ma come già in Europeana lo fa straniandolo in modo tale da restituire un’immagine cristallina, nuova e a suo modo urticante. Se nel precedente libro era la storia del Novecento a essere triturata nel macinino di un extraterrestre, o di uno storico con l’esaurimento nervoso per usare una definizione di Paolo Nori, in Istante propizio, 1855 è il sogno dell’anarchia, dello stravolgimento delle regole statali, morali e sociali dell’Ottocento a essere colto da un’angolazione che, attraverso un’intelligente polemica (continua anche se a tratti poco percepibile), ci priva dei nostri tradizionali sistemi di riferimento per mezzo di una sorta di “forza anarchica” non tanto del messaggio, quanto del manoscritto dell’autore. E se nel modo in cui questa scrittura ci rende estranea la storia che conosciamo c’è dello sperimentalismo (e delle tracce d’avanguardia), non è mai fine a se stesso e non prende mai il sopravvento sul testo, perché Ouředník ha sempre ben sotto controllo le sue creature e, se davvero di postmodernismo vogliamo parlare, potremmo al massimo parlare di un “postmodernismo dal volto umano”.
Inconsueta è la struttura stessa del libro, assemblato con due parti molto diverse tra loro, e per certi aspetti quasi in opposizione, raccontate da due narratori diversi: un anarchico intellettuale e sognatore a cui la storia ha portato via senza misericordia parte dei suoi sogni (tra i quali l’amore) e un anarchico avventuroso e concreto partito per la realizzazione di quel sogno, che forse non poteva che andare a finire male. La lettera iniziale, questa sorta di “memoria” di uno dei tanti incompresi della storia, un idealista caduto lungo la sofferta strada del progresso, indirizzata, cinquant’anni dopo il fallimento della spedizione in Brasile, alla sua amata che lo ha rifiutato, rappresenta uno dei massimi risultati del virtuosismo linguistico di Ouředník nella sua variante “filosofica”. L’ansiosa ricerca teorica di un possibile mondo diverso, governato da nuovi rapporti sociali, da un’altra idea dei sentimenti e dell’agire politico, quello che possiamo chiamare in breve il mito della “fiaccola dell’anarchia” ha ricordato ad alcuni critici una sorta di introduzione a Europeana, di cui condivide lo sguardo disincantato sulla storia e una forza della scrittura che fa di fatto di quasi ogni frase una possibile citazione. I tentativi del secondo protagonista di riprodurre sotto forma di un diario il decorso della catastrofe della spedizione in Brasile del 1855 (anticipata già nel titolo del libro e nelle parole della prima lettera) sono invece un esempio mirabile del virtuosismo linguistico dell’autore nella sua variante goliardica e corrosiva (e quindi di una prosa “afilosofica”). Dopo il racconto della lunga traversata, nel corso della quale i sogni dell’anarchia si scontrano con la prosa quotidiana delle divisioni nazionali e delle abitudini inveterate, quattro “varianti” dell’avvicinarsi della catastrofe, con un ritmo sempre più accelerato, segnano in modo fin troppo chiaro la presa di coscienza del fallimento definitivo della colonia Fraternitas, in cui i coloni non riescono ad accordarsi nemmeno sulle cose più semplici, riproducendo, in forme diverse in ognuno dei finali, la logica autoritaria del mondo da cui erano fuggiti solo pochi mesi prima alla ricerca del nuovo. Logica quindi la conclusione finale: “aveva con sé un’ascia e voleva abbattere il palo del cortile su cui sventola la bandiera rossa e nera. È venuto con una dozzina di vecchi coloni e qualche indiano, uno di loro agitava un machete e non la smettevano di ridere. Quasi tutti erano ubriachi” (p. 138).
Il duplice fallimento della storia d’amore e dei propri piani teorici nella prima lettera e del tentativo di fondare nella pratica quotidiana il nuovo mondo riflettono un’immagine sì distorta, ma alla fine estremamente veritiera del fallimento delle aspirazioni di tante generazioni che ci hanno preceduto: anarchia, socialismo e comunismo sono qui viste con tutta quella crudezza e sobrietà che conosciamo già dalle pagine di Europeana. Ma non è, come anticipato, soltanto la storia a essere dissezionata e demitizzata, perché sul principale banco degli accusati finisce la letteratura stessa, poco più che inganno perpetrato a sangue freddo sui lettori (“scrivere libri non è che un altro mezzo per asservire il prossimo”, p. 17). Una sorta di condanna proclamata con parole che sembrano quasi descrivere il mercato letterario di questi nostri anni così opulenti:
Non intendo per nulla, signora, sottostare ai canoni della letteratura attuale, che dagli autori esigono cretinerie divertenti tratte dalla loro intimità; non intendo neppure sottostare a coloro che si fregino del titolo di critici letterari, benedettini della vanità e dell’untuosità, che cercano nei libri solo quei paesi che permetteranno loro di castrare la verità, soffocare la luce sotto lo spegnimoccolo della cosiddetta psicologia moderna e delle scienze letterarie (pp. 10-11).