La Stampa (Marco Belpoliti)

Publié le domenica  11 marzo 2012
Mis à jour le lunedì  9 gennaio 2017

Apocalittici e ottimisti il catalogo del ’900

Fra tragedie e frivolezze, il secolo breve secondo Ourednik

Marco Belpoliti

La Stampa, 21 dicembre 2011


Gli americani che sbarcarono in Normandia, per dare l’assalto alla Fortezza Europa nel 1944, erano dei ragazzoni ben piantati e misuravano in altezza mediamente m 1,73; se li si fosse disposti per il lungo, piedi contro cranio, avrebbero misurato complessivamente 38 chilometri. Nel 1914, invece, un francese inventò il reggiseno e subito le gazzette scrissero che avrebbe offerto alle donne la possibilità di fare sport per via della scomparsa del corsetto; nel 1945 gli americani inventarono il reggiseno imbottito per le donne poco formose, e nel 1968 le donne si tolsero il reggiseno davanti ai giornalisti per far capire che uomini e donne erano identici. Nello stesso anno il consumo pro capite di acqua s’impennò da dieci a 115 libri al giorno. Che legame esiste tra questi avvenimenti e la loro definizione in termini numerici? Nulla o quasi, se non fosse che l’autore di queste osservazioni, e di decine altri fatti all’apparenza secondari o laterali, lo scrittore boemo, Patrik Ourednik, li ha allineate in una sequenza costituita di rimandi e analogie per raccontare la storia del nostro continente dalla Prima guerra mondiale ai giorni nostri giorni. Europeana. Breve storia del XX secolo (:duepunti edizioni) e’ un libro straordinario prima di tutto per il modo in cui e’ scritto, tanto da far pensare che sia stato redatto da uno dei personaggi di Beckett, o scaturito dalla penna di Perec. Il racconto si svolge senza che nessuna virgola separi una frase dall’altra; i tempi verbali, poi, sono all’imperfetto, cosi’ che le storie sembrano appartenere al sentito dire: fluttuante e insieme preciso. Un racconto apocalittico, degno del miglior Ceronetti, per cui ogni invenzione capitata tra l’inizio del XX secolo e la sua fine – dalla carta igienica alla Barbi, da Internet alla setta di Scientology – appare iscritta dentro le due grande ideologie che hanno ammorbato, secondo Ourednik, il continente: nazismo e comunismo nella sua versione sovietica. I due eroi del libro, che tornano a piu’ riprese nelle sequenze di fatti, sono rispettivamente una giovane ebrea sopravvissuta alla guerra suonando arie della Vedova allegra sul marciapiede della stazione di Struthorf (un campo di concentramento nazista situato presso il villaggio alsaziano di Natzwiller) e un soldato italiano che dalle trincee della Prima guerra mondiale, tra topi e cadaveri di commilitoni, scrive alla sorella: «Mi sento di giorno in giorno piu’ positivo». Nei giorni in cui l’Europa unita, nella moneta piu’ che nelle sue radici culturali, e’ sembrata sul punto di esplodere, il volume dello scrittore ceco, giocatore di scacchi e compilatore di enciclopedia, suona come una perfetto richiamo alla riflessione. Dopo due guerre mondiali, costate milioni di vittime, dopo i campi di concentramento, i Lager, i Gulag, come possiamo ancora dirci europei? Abbiamo forse costruito la nostra identità sui massacri passati, oppure la nostra identità continentale riposa su qualcosa d’altro? E come possiamo mantenerci uniti oggi senza credere alle nefande verità assolute che hanno edificate regimi politici inumani? Ourednik pur essendo un catastrofista dal tratto sarcastico, come trapela dallo stile del racconto, ha scritto un libro davvero originale e affascinante, una sorta di vaccino letterario contro gli assolutismi del XX secolo. In una delle microstorie che racconta, nel 1900, all’Esposizione Universale di Parigi, furono ingaggiati degli impiegati dell’amministrazione coloniale per impersonare, seduti davanti a una capanna di bambu’ con una pelle d’animale in dosso e asce di selce, la popolazione esotica dei kanaki. Ebbero successo, e perciò furono spediti in tourne’e in Belgio, Germania e Danimarca. I poveri impiegati scrivevano lettere accorate alla amministrazione per sapere quando avrebbe potuto interrompere la messa in scena e riprendere il loro normale lavoro. Un giorno se la svignano dal treno su cui viaggiavano, e s’imbarcano clandestinamente su cargo diretto in Nuova Caledonia, in realtà con destinazione Libano. Scoperti dai marinai, sono riconosciuti come i kanaki dell’Esposizione e come tali trattati. La storia, raccolta in qualche vecchio libro, funziona come una perfetta metafora del colonialismo ma anche del post-colonialismo, dell’infinita ricerca d’identità che gli europei, conquistatori del mondo, almeno sino all’emergere dell’egemonia americana, hanno perseguito sino al ridicolo, compreso il disastro e la strage da cui tutto ciò si diparte. Lo scrittore boemo, rifugiato a Parigi dal 1984, dove ha fatto il traduttore, e’ ossessionato dall’orrore che e’ dietro alle nostre spalle, di cui mette in luce la follia e insieme l’assoluta stupidità. Non e’ certo un ottimista, per quanto a tratti i suoi racconti strappano la risata, là dove mette a confronto le tesi opposte di sociologi e psicologi su: adolescenza, bambini, sessualità, società liquida, e altre formule del genere. In una delle ultime pagine racconta in modo icastico la storia di un reduce dei campi di concentramento tedeschi. Dopo la fine della guerra torna a casa rasato e se ne va a ballare con una amica della sorella che i suoi compaesani hanno rasato perche’ andata a letto con un soldato tedesco; balla con lei stretto stretto, testa rasata contro testa rasata; la gente intorno trova tutto ciò sia fuori luogo e quasi ripugnante. Nell’apologo si compendia forse il nostro strano destino di europei reduci da secoli di guerre intestine, da quelle di religione ai conflitti cosiddetti mondiali. Che sia questo il nostro destino: ballare con il presunto nemico?

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